La “Zeza” è il Carnevale rurale irpino di derivazione secentesca napoletana che mette in scena la commedia cantata di Pulecenella Cetrulo (Pulcinella il Citrullo) e di sua moglie Zeza, entrambi alle prese con la difficile decisione se concedere o meno in sposa la loro brutta figlia Vencenzella o Purziella (Vincenzina o Porzia, a seconda della variante locale) a un altrettanto improbabile pretendente da ella corrisposto, qualificato come il cacciatore (o pescatore, o marinaio, o Don Nicola, sempre a seconda della variante di volta in volta inscenata).
Vicenda di Zeza
La vicenda dolceamara rappresentata, variazioni a parte, è in linea di massima la seguente: Zeza, mamma di Vencenzella (Porzia), sarebbe in teoria favorevole al matrimonio della figlia con un altro spasimante, il ricco ‘on Zinobio (Don Zenobio), un dottore che pure l’ha chiesta in sposa; è contrario invece Pulecenella, al punto da spingersi a picchiare il facoltoso medico. Don Zenobio, per difendersi e vendicarsi, spara a Pulcinella, ferendolo ma senza ucciderlo.
A questo punto Pulcinella, ferito e disperato, non ha altra scelta che quella di rivolgersi, per essere curato, proprio all’attentatore alla sua vita, e così i due si accordano: Don Zenobio lo salva, ma in cambio si assicura la mano di Zeza, con l’aggiunta in più di una ricca dote. E si giunge al finale beffardo e cinico con tutti felici e contenti (tranne purtroppo i due innamorati delusi e lo stesso Pulcinella che, suo malgrado, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco) a ballare allegramente la quadriglia.
La tradizione orale della Zeza fra commedia latina classica e maschere della commedia dell’arte
Interpretata, come nella commedia latina classica, esclusivamente da attori maschi – che si accollano pertanto tutti i ruoli, inclusi quelli femminili – e strettamente imparentata con la commedia dell’arte italica e regionale, di cui mutua e sfrutta personaggi e situazioni comiche, la rappresentazione carnevalesca della Zeza tradisce proprio per questi motivi le sue antichissime origini di tradizione oralmente tramandata e trasmessa.
La Zeza, moderno carro di Tespi
La Zeza è singolarmente diffusa e tenuta viva anche se, come già detto pocanzi, in varianti e versioni piuttosto diverse tra loro, in ben più di un paese dell’Irpinia. Mercogliano, Bellizzi, Capriglia sono i più rappresentativi, ma viene perpetuata a Cesinali, Cervinara, Monteforte, Volturara, Montoro, Solofra e altrove. Anche a Petruro di Forino si porta avanti da anni e anni la tradizione della Zeza (vedi foto) e del “ballo o’ ntreccio“.
Le rispettive compagnie di strada, durante le settimane del Carnevale, giungono a scambiarsi visite di cortesia e sberleffi da un paese all’altro. Nel corso di questi bizzarri incontri/tornei si pongono spesso in competizione le une con le altre in un clima scanzonato di goliardia e di ammiccamenti al pubblico che, sulla stessa falsariga di ogni altro teatro popolare, è il destinatario finale di un complesso cerimoniale non scritto – ma comunque ben codificato – di lunghi ed elaborati ringraziamenti, un po’ come accadeva con i carri di Tespi itineranti di vecchia memoria.
La Zeza come modo di dire
A ulteriore riprova di tutto ciò, non a caso insiste e sopravvive in area una vecchia metafora popolaresca, che si esplicita in vari modi di dire dialettali tuttora correnti, secondo i quali quando si fa riferimento a un pasticcio inestricabile e rocambolesco, descritto icasticamente, appunto, come “’na zeza”. Es.: “Ma che è ‘sta zeza?” (ma che cos’è questa assurda confusione?) “He’ cumbnato ‘na zeza” (hai fatto un gran pasticcio).
Il recupero della Zeza e lo studio del suo valore antropologico
Si tratta di una tradizione di grande autenticità e valore, che affonda le proprie radici nella storia e nell’anima popolare e che suscita l’attenzione di storici, antropologi, musicologi, interpreti e valorizzatori del territorio. Tra loro, il musicista e appassionato di folklore e tradizioni locali Massimo Vietri, a cui abbiamo posto delle domande sul suo rapporto anche diretto e personale con la Zeza e che ringraziamo per averci aperto ancor di più gli occhi su questo universo sorprendente e antico.
La Zeza amata e vissuta in prima persona: intervista a Massimo Vietri
– Massimo, che cos’è per te la Zeza? Cosa rappresenta per questo territorio e per la nostra cultura?
– La Zeza è per me, innanzitutto, un fantastico ricordo d’infanzia e di gioventù, vissuto nella mia Avellino insieme a un’altra bella usanza stagionale dello stesso periodo dell’anno, i falò, o focaroni, o lumanere che, insieme con il Carnevale e la Zeza, preludevano simbolicamente alla fine dei nostri freddi inverni irpini. E, poi, le lunghe prove con gli amici di Bellizzi, i passi della quadriglia ripetuti all’infinito sotto i comandi nel voluto francese maccheronico del nostro capozeza; e il rigore dei costumi e dei mascheramenti – ci dicevamo tra noi che, se non fossimo stati bene attenti a ogni dettaglio, allora sì che ne sarebbe venuta fuori ‘na zeza… ma in quell’altro senso! – fino all’emozione grande di averla potuta portare e ballare addirittura al Carnevale di Venezia, dove ha finalmente ottenuto il tributo di attenzione che meritava e che merita. Insomma, la Zeza è uno dei simboli di un mondo arcaico che ancora magicamente sopravvive, a dispetto dell’oblio cui il progresso avrebbe dovuto averla già condannato. E cosa c’è di più bello di questo?
– Perché venire a vedere la Zeza in Irpinia oggi?
– Perché la Zeza è veramente il tratto più originale e verace del carnevale irpino, e forse anche non soltanto irpino: un unicum, una cosa preziosa. Dai tempi lontani in cui allietava i ricchi nobili napoletani nelle loro ville qui in collina, di strada ne ha fatta tanta, ma senza perdere le sue caratteristiche né snaturarsi troppo: basti pensare alla metrica e all’intenzione della cantata, distinte da quelle originali vesuviane eppure con esse coerenti, alle scalette allungabili con le quali nel rione avellinese Valle si faceva la questua per poter pagare la banda al seguito degli attori, ma anche al Gruppo Operaio “E Zezi”, che è stato tra i protagonisti delle canzoni di protesta e di lotta degli anni Settanta… la Zeza è un pezzo di storia popolare autentica e radicata nel tempo su questa nostra terra, da non perdere prima che malauguratamente scompaia.
– Tu che della Zeza ha approfondito così bene il passato e praticato con tanto entusiasmo il presente, come ne vede oggi il futuro?
– So che detto in questi termini può sembrare paradossale, ma è stato proprio il suo isolamento culturale a salvare la Zeza dall’estinzione, traghettandola in maniera praticamente intatta attraverso i secoli sino a oggi. Isolamento che, tuttavia, ne rappresenta la forza e la debolezza allo stesso tempo: chiusura che, però, permette la conservazione, grettezza che vuol dire anche purezza, sentimento che in questi luoghi continua a coinvolgere incredibilmente anche i più giovani. Quanto alla questione specifica del suo futuro, anch’io, come del resto già altri qui in zona, me ne ritrovo indirettamente investito e coinvolto; con il mio gruppo di musica popolare rivisitata “La Lumanera” cerco infatti di riscrivere e reinterpretare nelle piazze tutte queste pagine semidimenticate della tradizione, gettando al contempo il seme per il domani. Perché si sa – o almeno tutti quelli che amano davvero la tradizione lo sanno – che il passato non muore, in realtà si trasforma, e magari quello che è innovazione oggi – forse chissà – sarà tradizione domani, in un circolo senza fine che è lo stesso della storia del mondo e dell’alternarsi delle stagioni. E allora, lunga vita alla Zeza e alla nostra bella umanità di irpini!
Grazie a Massimo Vietri di queste sue belle appassionate parole, e a voi buon divertimento e buona scoperta della Zeza, lo spassoso e antico Carnevale d’Irpinia!