Il Greco di Tufo: vino irpino DOCG dalla storia millenaria

da | 11 Ago, 2022 | Sapori | 0 commenti

Un vino bianco che, da secoli, impreziosisce ogni banchetto, cerimonia o momento conviviale, rendendolo eterno come la storia e autentico come il suo sapore. Un’eternità e un’autenticità che ben si legano alla rinomanza del Greco di Tufo, autentica eccellenza d’Irpinia e DOCG dalla storia millenaria tutta da scoprire.

Il Greco di Tufo nell’antichità e la testimonianza pompeiana

«Sei veramente gelida, Bice, e di ghiaccio, se ieri sera nemmeno il vino Greco è riuscito a riscaldarti». Così recita una scritta ritrovata a Pompei, lasciata su un muro, prima che il Vesuvio dilavasse tutto ciò che lo circondava. Racconta di un amore non corrisposto, e di un vino, il  Greco, che non è riuscito a scaldare il cuore di Bice. Ebbene sì, verosimilmente quel vino è quello che oggi noi chiamiamo Greco di Tufo, non lo stesso naturalmente, ma uno stretto parente di quello che troviamo sulle nostre tavole.

È una testimonianza bella, romanica e affascinante che, insieme agli affreschi ritrovati sempre a Pompei del Vesuvio ricoperto di vigneti, racconta di un vino prodotto e bevuto già millenni fa

Le origini del Greco di Tufo: dai Pelasgi all’Aminea Gemina dei Romani

Nel tempo il Greco di Tufo ha avuto tantissimi estimatori. Ne hanno parlato storici e scrittori romani come Catone, Varrone, Virgilio, Plinio e Columella. Plinio il Vecchio lo definì come un vino «così pregiato che nei banchetti veniva versato una sola volta», a testimoniare il pregio del Greco di Tufo considerato già come bevanda d’eccellenza.

Il vitigno fu importato in Italia dai  Pelasgi che dalla Tessaglia (regione dell’antica Grecia) lo impiantarono in Campania, prima alle falde del Vesuvio e successivamente in altre zone interne. Il vitigno è corrispondente all’Aminea Gemina degli scrittori romani, chiamato così per la sua spiccata gemmazione laterale che va a formare una sorta di gemello (gemina) e dal nome degli aminei, una popolazione greca colonizzatrice della fascia costiera del Vesuvio.

Il Greco a Tufo: la “febbre dello zolfo” e l’aumento delle esportazioni

Il trapianto del Greco a Tufo avviene intorno al 1648, quando Scipione di Marzo in fuga dalla peste, porta con sé da San Paolo Belsito il vitigno e lo impianta a Tufo. Qui le viti trovano la loro condizione ottimale, e grazie alla particolare composizione del terreno e alle condizioni climatiche, le produzioni raggiungono un’elevata qualità.
Nel 1860 arriva un’ulteriore spinta alla produzione: la scoperta dei giacimenti di zolfo. Quest’ultimi non solo aiutano l’economia locale, ma anche la viticoltura, in quanto lo zolfo si dimostra una potente arma contro i patogeni della vite. A questo si aggiunge la nascita nel 1890 della prima ferrovia irpina, che agevola il commercio e il trasporto dei prodotti locali. Aumentano così le esportazioni in tutta Italia e, di conseguenza, la diffusione e il prestigio di questo vino su tutto il territorio nazionale.

Il Greco di Tufo oggi: dall’Irpinia alle tavole di tutto il mondo

Oggi il Greco di Tufo continua ad essere una certezza e una virtù per l’Irpinia, unica provincia del sud a poter vantare tre DOCG (lo stesso Greco di Tufo, il Fiano di Avellino, il Taurasi).
Il disciplinare prevede la produzione in otto comuni della provincia: Tufo è sicuramente la sua zona d’elezione, ma a questo si affiancano Altavilla Irpina, Chianche, Montefusco, Prata di Principato Ultra, Preturo Irpino, Santa Paolina e Torrioni.

È un vino importante, fine, armonico e fresco, con una forte propensione all’invecchiamento e con un’ottima riuscita anche nella versione spumantizzata. Sul territorio si trovano tante cantine che producono Greco di Tufo di qualità e che permettono a questo fantastico vino di competere in tutti i concorsi e le manifestazioni nazionali e internazionali, nonché di essere presente sulle tavole di tutto il mondo.

Il Greco di Tufo è un’altra grande testimonianza dello spessore e della varietà di esperienze che la nostra provincia offre: natura, borghi, sapori e tradizioni.

Foto di Chiara Aufiero